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Bisogna ingegnarsi ragazzo ... oggi nessuno ti regala niente ... diglielo Don ognuno per se ... gli affari sono così |
DI CECILIA CARPONI
su pensieri di cartapesta l'originale
Rintanati in un negozio di rigattiere,
tra vecchie biciclette, cavalli a dondolo e ninnoli di ogni sorta, Don e
Bob organizzano un colpo: rubare una moneta con l’incisione di un
bufalo – l’American Buffalo del titolo –. Bob è un tuttofare tossicodipendente, di cui Don, il proprietario del negozio, tenta di prendersi cura. Il tizio
che tengono d’occhio è un collezionista che ha acquistato la moneta nel
negozio di Don qualche giorno prima, alla cifra irrisoria di 90
dollari. Ma all’arrivo di Teach, un perdigiorno misantropo e nevrotico,
il piano viene completamente sovvertito, lasciando emergere l’esilarante
inesperienza dei tre complici.
Acuto e pungente, il testo di David Mamet
racconta una storia che rispetta fedelmente il – cosiddetto – canone
delle tre unità aristoteliche, elaborando un mondo di assoluta
verosimiglianza. I dialoghi affondano le radici in una matrice di ironia
sottile e ininterrotta, non si allontanano dal registro colloquiale, e
non temono un tono frequentemente – e squisitamente – salace.
La messinscena di Mario Sgueglia e Gianluca Soli non fa che valorizzare costantemente gli aspetti che rendono American Buffalo un’opera di genio. La scenografia, dettagliatissima e curata minuziosamente, conduce lo spettatore in uno spazio di disordine artistico,
caotico ma equilibrato, oltre che coerente e credibile.
E il disegno
luci riesce a illuminare od oscurare parti della scena con una
precisione quasi cinematografica.
Ma l’imperdibile incanto di American Buffalo è l’interpretazione esemplare dei tre attori.
Gianluca Soli,
nei panni del giovane tossicomane, è in grado di dosare egregiamente
gli elementi che caratterizzano l’abuso di droghe, senza mai abbandonare
la verità di una dipendenza per cadere nel parossismo.
Alessandro Procoli
è un eccellente Don: sempre presente e in ascolto, non perde mai il
contatto con il suo mondo interno, pur dimostrando un’instancabile
apertura nei confronti dei colleghi.
Mario Sgueglia, nel ruolo di Teach, riesce a creare una mimica della psicosi
impeccabile e disarmante; ogni impercettibile movimento è il segno di
un corpo nevrotico, eppure non c’è un istante in cui i piccoli tic che
il personaggio possiede sembrino forzati o ricercati.
È inoltre ammirevole il gesto vocalico
dei tre interpreti: non voci impostate, identiche l’una all’altra e
affettate dalla cantilenante intonazione, bensì voci vere, umane,
meravigliose nella loro unicità; non volumi squillanti, inutilmente
elevati, ma al contrario una proiezione della voce in grado di
raggiungere gli spettatori dell’ultima fila, senza per questo spingere goffamente sul diaframma.
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